Il principio olografico dell’Universo

Lunghezza, larghezza, altezza. A prima vista non sembrano poterci essere dubbi: la realtà che abitiamo è tridimensionale. Eppure una delle teorie più chiacchierate in fisica negli ultimi anni sembra mettere in discussione anche questo assunto consolidato. Il cosiddetto principio olografico afferma che una descrizione matematica dell’universo potrebbe tranquillamente fare a meno di una delle dimensioni previste. Quello che noi percepiamo come tridimensionale potrebbe allora essere un trucco, potrebbe non essere altro che l’immagine di un lontano orizzonte cosmico a due dimensioni.

Un paradigma cosmologico di tipo olografico indurrebbe a ritenere che le stelle non siano solo corpi massicci, a differenza di quanto credono gli astronomi, ma immagini olografiche proiettate sul gigantesco schermo tridimensionale che avvolge il pianeta, il campo magnetico terrestre. L’universo come ci appare sarebbe allora una matrice, una pellicola digitale che abbiamo scambiato per realtà: la vera realtà sarebbe occultata dietro parvenze fallaci.

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Tutto comincia quando l’equipe di ricerca del fisico Alain Aspect, direttore francese del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique), effettua uno dei più importanti esperimenti della storia. Il team scopre che sottoponendo a determinate condizioni delle particelle subatomiche come gli elettroni, esse sono capaci di comunicare istantaneamente tra loro a prescindere dalla distanza che le separa, sia che si tratti di un millimetro, che di diversi miliardi di chilometri. Questo fenomeno portò a due tipi di spiegazioni: o la teoria di Einstein (che esclude la possibilità di comunicazioni più veloci della luce) è da considerarsi errata, oppure le particelle subatomiche sono connesse non-localmente: dunque esiste qualcosa di non tangibile e visibile che mantiene collegati gli atomi a prescindere dallo spazio, e quindi anche dal tempo?

David Bohm, fisico dell’Università di Londra, sosteneva che le scoperte di Aspect implicassero la non-esistenza della realtà oggettiva. Vale a dire che, nonostante la sua apparente solidità, l’Universo è in realtà un fantasma, un ologramma gigantesco e splendidamente dettagliato.

Questa intuizione suggerì a Bohm una strada diversa per comprendere la scoperta del gruppo di ricerca francese, egli si convinse che il motivo per cui le particelle subatomiche restano in contatto, indipendentemente dalla distanza che le separa, risiede nel fatto che la loro separazione è un illusione: ad un qualche livello di realtà più profondo, tali particelle non sono entità individuali ma estensioni di uno stesso “organismo” unico.

Se le particelle ci appaiono separate è perché siamo capaci di vedere solo una porzione della loro realtà, esse non sono “parti” distinte bensì sfaccettature di un’unità più profonda e basilare; poiché ogni cosa nella realtà fisica è costituita da queste “immagini”, ne consegue che l’universo stesso è una proiezione, un’ologramma. Se l’esperimento delle particelle mette in luce che la loro separazione è solo apparente, significa che ad un livello più profondo tutte le cose sono infinitamente collegate.

In un universo olografico neppure il tempo e lo spazio sarebbero più dei principi fondamentali, poiché concetti come la “località” vengono infranti in un universo dove nulla è veramente separato dal resto: anche il tempo e lo spazio tridimensionale dovrebbero venire interpretati come semplici proiezioni di un sistema più complesso.

Allora, la realtà nella quale siamo immersi, in apparenza così tangibile, forse non è altro che una proiezione a due dimensioni. E l’impressione di vivere in un universo in 3D è solo frutto di un’illusione, dovuta magari all’altissima risoluzione e al fatto di esserci immersi dentro. Quasi fossimo gli inconsapevoli protagonisti di un serial TV, che si aggirano in un mondo apparentemente tridimensionale quando in realtà altro non è che una piatta matrice di pixel sullo schermo del nostro televisore.

La questione è di quelle che danno le vertigini, ma la verifica potrebbe essere a portata di mano. E arrivare dalla campagna a ovest di Chicago, dove sorge il laboratorio di ricerca Fermilab, ora teatro di uno fra i più ambiziosi esperimenti di fisica mai concepiti: scoprire se anche lo spazio-tempo, così come la materia, è un sistema quantistico.

La fisica dei buchi neri, in cui lo spazio ed il tempo sono molto compressi, fornisce una base matematica che mostra come la terza dimensione potrebbe non esistere affatto. In questa versione a due dimensioni dell’Universo, quella che noi percepiamo come terza dimensione sarebbe in realtà soltanto la proiezione del tempo legato alla profondità. Se questo fosse vero, l’illusione può essere mantenuta solamente finché non viene trovato uno strumento abbastanza sensibile da scoprire i suoi limiti.

Non la si può percepire perché nulla viaggia più veloce della luce. Questa versione olografica dell’universo apparirebbe come se la guardaste seduti su un fotone. Per riuscirci, gli scienziati hanno costruito un olometro, una sorta di dispositivo che potrebbe dare luogo a una figura d’interferenza: la firma del “rumore olografico”, ovvero fluttuazioni quantistiche nella trama dello spaziotempo.

Ma perché mai lo spazio dovrebbe “fluttuare”? Perché dovrebbe mostrare quelle silhouette cangianti tipiche degli ologrammi, appunto, che danno sì l’impressione di tridimensionalità ma al tempo stesso di instabilità? Per rispondere, torniamo alla metafora iniziale, quella delle immagini su uno schermo. Ci appaiono tridimensionali e continue, ma se ci avviciniamo possiamo vedere che in realtà sono tutte pixelate. Se la risoluzione è molto alta e lo schermo è molto compatto, però, come può essere quello di un tablet HD, distinguere i singoli pixel diventa praticamente impossibile. Ebbene, il “pixel size” dell’universo olografico, cioè la dimensione del singolo pixel, stando agli scienziati dovrebbe corrispondere alla scala di Planck: ogni pixel sarebbe cioè circa 10 trilioni di trilioni di volte più piccolo di un atomo.

Pixel di dimensioni infinitesimali, dunque. Ma non nulle. Ed è proprio su questo che si gioca l’intera congettura. Se lo spazio fosse davvero “pixelato”, ciò implicherebbe un’incertezza intrinseca, nel senso che all’interno d’un singolo pixel il concetto stesso di posizione non avrebbe più significato alcuno. In altre parole, esisterebbe un limite alla capacità dell’universo di memorizzare informazioni: un determinato numero di bit, sicuramente elevatissimo, ma non infinito. Ed è proprio dall’indeterminatezza inevitabile dovuta alla natura digitale dello spazio (al suo campionamento, potremmo dire) che emergerebbero le fluttuazioni, il rumore di fondo olografico che gli scienziati del Fermilab vogliono misurare.

Se alla fine riusciranno a isolare un rumore del quale non ci sia modo di sbarazzarsi, potrebbero aver rilevato qualcosa di fondamentale della natura, un rumore intrinseco allo spaziotempo, e l’idea di spazio che ci ha accompagnato per migliaia di anni sarebbe destinata inevitabilmente a cambiare.

Siamo come Alice nel paese delle meraviglie: gli specchi restituiscono immagini di immagini. Nulla è come ci appare ed i fenomeni si sovrappongono, si intersecano, si sfaccettano per ricomporsi. Chi abbia osservato il firmamento in questi ultimi decenni avrà notato particolari configurazioni, dimensioni inusitate, inattesi splendori… È possibile che un indebolimento del campo elettromagnetico terrestre implichi una disgregazione degli aspetti tridimensionali, quasi fossero i fotogrammi tremolanti di un canale televisivo fuori sintonia. Il tempo subisce un collasso. Le forme quindi si disintegrano progressivamente. Il velo si assottiglia, si strappa, lascia intravedere l’invisibile: dimensioni parallele, cavità atemporali, meandri siderei, universi secanti…

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